La ripresa passa da medie imprese e leva fiscale per chi ci investirà

Fare un fondo sovrano per le PMI richiede tempo e rischia di costare caro

Mario Draghi è noto al grande pubblico per il suo «whatever it takes» e per aver guidato in modo magistrale la Bce. All’Italia ha però dato altri contributi di alto livello, tra cui quello di aver stimolato e seguito molte importanti privatizzazioni. In un Paese come il nostro da sempre incline a scaricare le società in perdita sullo Stato, quella svolta, da Giuliano Amato in poi, è stata fondamentale per far evolvere la mentalità degli operatori economici e per far crescere i mercati finanziari. Senza, la Borsa italiana sarebbe ancora quella realtà quasi insignificante che avevamo visto fino ai primi anni novanta.

Oggi, post-Covid, ma più che altro a seguito delle affermazioni di Draghi in Senato sul fatto che «il ruolo della Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione» si cominciano ad avvertire le frustrazioni di coloro che auspicavano si desse vita a un fondo sovrano destinato alle Pmi, dotato di centinaia di miliardi di euro. Sarebbe stato – e sarebbe – un grosso errore per come qualcuno lo stava immaginando. Non perché le aziende italiane non abbiano bisogno di crescere in termini di patrimonializzazione, ma perché di fatto i soldi dello Stato spesi male darebbero vita a una nuova Iri, a una ulteriore Gepi, forse anche simile a quell’Efim (ed Egam) che troppi hanno dimenticato. Nessuno ha mai fatto il calcolo di quanto sia costata l’avventura di quei tre enti. Di certo l’intero debito pubblico italiano verrebbe fortemente ridimensionato se si escludesse l’incidenza delle perdite di quelle tristissime storie. Ma il danno ancor maggiore attribuibile a quegli enti è stato a livello culturale, perché per decenni hanno tolto stimoli all’imprenditoria privata e contribuito a generare quella (voluta) sottocapitalizzazione delle nostre imprese. Per carità, di cose buone in simili coacervi ce ne sono state, ma poche rispetto al resto. Il grosso del lascito di quel tipo di storie, che peraltro non si sono fermate agli enti citati ma hanno avuto vari emuli più piccoli, a volte a carattere territoriale ma non meno dannosi, è stato infatti pesantemente negativo.

Da quell’eredità è nato un nuovo corso della Cdp – che ha fatto, come tutti, qualche errore – ma che sta dando buoni contributi al sistema industriale. Dalle startup tecnologiche alla Telecom, da possibili ruoli per sciogliere il nodo Autostrade al sostegno, con debito e con equity, a molte medie imprese. Non le piccole, ma le medie, cercando di rompere quell’abitudine da incompetenti di mescolare, con l’insignificante definizione di Pmi, dimensioni aziendali del tutto diverse e strutturalmente incompatibili.

Sono le medie imprese che rappresentano e devono ancor più rappresentare l’asse portante del futuro industriale del nostro Paese. Ed è lì che si deve incidere.

Il Covid ha finora portato alle imprese molti soldi garantiti dalla Sace, sempre come debiti. Lo stesso temporary framework, che sta muovendo i primi passi, di fatto propone prestiti. Giustamente, perché il fondo perduto ha sempre nuociuto alle aziende, perché ha tolto disciplina e creato distorsioni, anomalie, facilitazioni che non possono essere mai eque. Altrettanto correttamente lo Stato ha finora sanato, con contributi a fondo perduto, più che altro le aziende più piccole e fragili. Ma, come Draghi sta facendo capire, seppur con la delicatezza e l’eleganza che lo caratterizzano, si deve arrivare presto a una selezione.

FONTE: Il Sole24